IN NOME DEI CAPELLI DI MAHSA
La liberazione in Iran (come avvenne in Italia) deve essere sostenuta dal basso. Dall’impegno dei civili che dia futuro e speranza oltre le macerie create dalle bombe.
Penso all’Iran e un po’ mi sento ringiovanire. Avevo infatti vent’anni o poco più e già mi trovavo a contestare la violenza, l’oscurantismo, le catene, le frustate e le condanne a morte che la repubblica islamica degli ayatollah infliggeva e continua ad infliggere ai suoi cittadini, specie agli irregolari, ai non allineati, agli uomini e alle donne che cercavano e cercano di essere semplicemente loro stessi e vivere la loro vita in libertà. Loro condannavano a morte ragazzi e ragazze. Io, noi, quella specie di comunità (mai come oggi) confusa tra i colori dell’arcobaleno scendevamo in piazza. L’abbiamo fatto mille volte, scattando come molle, sventolando bandiere e brandendo striscioni, urlando slogan, megafoni alla mano, in via Nomentana, sotto l’ambasciata a Roma di quei boia che non temono Dio (perché se lo temessero non impiccherebbero la gente come invece fanno, poveri stronzi, proprio in nome di Allah).
A spingerci c’erano la rabbia e la volontà, almeno figurata, di correre in soccorso, aiutare in qualche modo, almeno con la voce e una presenza in più in mezzo alla strada, quei ragazzi che a Teheran non avevano la nostra stessa libertà di esistere, manifestare, incazzarsi e almeno provarci a cambiare un po’ il mondo.
Oggi, passati i 40 anni, ho capito che il mondo, in realtà, non cambia mai. Si ripete. Cambiamo di più noi nelle nostre piccole vite. Piccole ma sensibili a quei mutamenti che, prima per l’età, poi per le varie esperienze che la vita ci impone, in qualche modo sortiscono effetti. E solo stando assieme possiamo contribuire a creare le condizioni perché piccole tessere di cambiamento si formino e si uniscano come in un puzzle, dal basso o forse sarebbe meglio dire: da dentro.
Un lavorio lento ma inesorabile che non nasce e vive più sulle ali dell’entusiasmo ma sgorga dal mal di stomaco, dalla bile, acido e logorante come un reflusso della Storia. Figlio naturale di una posata indignazione che è sorella dell’insperata ma sempre salvifica speranza. O per dirla come amava fare l’ultimo Pannella, della spes contra spem che sa rendere visionari, folli ma qualche volta anche incredibilmente vincenti.
Un sommovimento profondo, un moto di spiriti spontanei più fragoroso delle bombe. Che deve maturare nell’anima delle persone. E io ne conosco. A Roma, dove ancora oggi, dopo l’uccisione, ormai tre anni fa, della 23enne Mahsa Amini, colpevole solo di aver indossato male il velo, e dopo tutti gli altri arresti e le violenze successive, perpetrate contro altre migliaia di altre giovani donne (ma anche uomini) in Iran, c’è chi come la mia impagabile e mai doma amica, la leader radicale Irene Testa, ha trascorso innumerevoli pomeriggi del sabato ancora una volta, come facevo pure io vent’anni fa, sotto l’ambasciata iraniana. A testimoniare una presenza fisica che è ancora necessaria, in ogni angolo del mondo. E oggi più che mai anche e ancora a Teheran. Dove le bombe non basteranno. Ma serviranno lo spirito, il coraggio, la memoria e la carne di altri giovani che, proprio come hanno fatto i nostri partigiani nell’Italia distrutta e da liberare ottant’anni fa, si facciano spazio a terra, creando luce e riaccendendo sorrisi, a testa alta, volto e testa scoperti. In nome della più sana e naturale ribellione. In nome dei capelli di Mahsa, dei combattenti e degli esuli iraniani che non hanno avuto la fortuna di sentire il profumo di una nuova vita possibile, persino a Teheran. Oltre le macerie polverose e mortifere di un regime assassino che, dopo quasi mezzo secolo forse stavolta è davvero ai titoli di coda.